Dal testo dell'intervista rilasciata da
Mons. D'errico a Večernji
list,
poco
prima della nomina a Nunzio Apostolico in Croazia,
emergono temi e
prospettive di grande rilevanza per la Chiesa e per lo Stato. La sua
opera ecclesiale e diplomatica ha avuto significati effetti e
risonanze che sono stati ben rappresentati, insieme con le
onorifecenze e i prestigiosi riconoscimenti ricevuti, nel libro
scritto in croato IN HONOREM pubblicato dallo stesso giornale. Un
libro ed un'esperienza umana che sono stati accolti con entusiasmo
dalla cultura e dalle popolazioni dell'area dei Balcani, grazie
all'esemplarità e agli orientamenti offerti nella direzione del
dialogo interreligioso, della pace e della testimonianza dei valori
cristiani ed umanistici.
Leggiamo di seguito direttamente il
testo italiano originale dell'intervista.
Intervista
al
Nunzio Apostolico
Arcivescovo
Alessandro D’Errico
(Sarajevo,
11 febbraio 2012)
Dopo
sei anni di permanenza qui,
quando Lei pensa a tutto ciò che ha fatto come Nunzio Apostolico in
Bosnia ed Erzegovina e in Montenegro, quali avvenimenti ritiene che
siano stati i più importanti?
Mi
consenta di fare
una premessa. Spesso mi viene domandato quale evento ritengo il più
importante di questi anni di missione in Bosnia ed Erzegovina e in
Montenegro. La risposta non è facile, perché sono stati anni molto
intensi. Guardando indietro, spesso sento il dovere cristiano di
rendere grazie a Dio per la cordiale accoglienza che ho trovato, a
tutti i livelli, e per il contributo di servizio che ho potuto dare
sia alla Chiesa in BiH e in Montenegro, sia alle relazioni di questi
popoli con la Santa Sede.
Penso
che alcuni eventi siano ormai consegnati alla storia della Chiesa in
BiH e in Montenegro: le nomine dei Vescovi, l’Accordo di Base con
la BiH, l’Accordo per l’erezione dell’Ordinariato Militare,
l’Accordo di Base con il Montenegro, la Commissione Internazionale
sul fenomeno di Medjugorje, le Visite del Cardinale Bertone e
dell’Arcivescovo Mamberti, le Visite in Vaticano delle più alte
autorità di questi Paesi, i lavori della Commissione Mista per
l’applicazione dell’Accordo di Base.
Accanto
a questi avvenimenti di rilevanza storica, ce ne sono stati altri
meno eclatanti, più discreti, ma altrettanto importanti. Penso in
particolare ai contatti che abbiamo stabilito con tante autorità
civili e religiose. Ritengo che questo aspetto non sia da trascurare,
perché costituisce come il presupposto degli eventi maggiori ai
quali ho accennato.
Lei
è stato premiato da “Večernji list-BiH”
con il Večernjakov
Pečat,
per
il Suo contributo al dialogo interreligioso. Come valuta le relazioni
tra i leaders
delle maggiori confessioni religiose in BiH? E come valuta i rapporti
di convivenza dei cattolici con i musulmani e gli ortodossi?
Sono
molto grato agli amici di Večernji
list,
per aver voluto pensare anche a me – per ben due volte – come
persona meritevole di una distinzione così ambita come il
Večernjakov
Pečat.
A dire la verità, in entrambe le circostanze rimasi anche un po’
imbarazzato quando me ne fu data comunicazione. Ma alla fine ritenni
doveroso accettare, perché pensai che il pečat
non era dato tanto alla mia persona, quanto alla missione che la
Nunziatura Apostolica cerca di svolgere in BiH, a nome della Santa
Sede.
Ebbene,
per quanto riguarda le relazioni tra i leaders
religiosi, credo che possiamo essere contenti, perché ci sono
incontri frequenti e tante iniziative, promosse da diversi gruppi e
movimenti, e in primo luogo dal Consiglio
Interreligioso.
Direi che c’è un sufficiente clima di fiducia. Questo si manifesta
non soltanto in occasione delle riunioni del Consiglio
Interreligioso, ma anche in diverse circostanze; soprattutto in
occasione delle grandi feste di ciascuna tradizione religiosa, quando
un po’ tutti partecipano a queste celebrazioni.
Tuttavia,
ripeto spesso che
bisogna tener presente che questa fiducia reciproca c’è, ma ad
alto livello. Però, a livello più popolare, si può costatare
facilmente che lì c’è ancora parecchio da fare, e la strada del
dialogo interreligioso è ancora lunga.
È
ben noto che la Santa Sede segue attentamente l’evolversi
della situazione in BiH. Quali sono i motivi di questo
interessamento?
Sì,
è vero. La Santa Sede ha sempre guardato con molta attenzione alla
BiH, sin dalla sua indipendenza. I motivi sono vari. In primo luogo,
in termini più generali, direi che la Santa Sede segue il Paese,
così come fa in altre aree ove c’è una comunità cattolica. E ciò
tanto più che qui c’è una plurisecolare comunità cattolica, ben
organizzata, che continua a dare un prezioso contributo anche alla
vita civile del Paese.
Insieme
a questo, vorrei
menzionare che in diverse circostanze le più alte autorità vaticane
hanno affermato che la Santa Sede guarda alla BiH con attenzione
privilegiata,
perché questo Paese costituisce un singolare punto di incontro di
civiltà e di religioni. Ciò porta a ricchezza di tradizioni e di
cultura. Ma può portare anche a notevoli tensioni: come in epoca
recente, quando gli eventi della guerra causarono tanta distruzione e
grandi sofferenze; o come nei mesi scorsi, per la complessa
situazione politica che si era creata dopo le elezioni del mese di
ottobre 2010.
L’attenzione
privilegiata spiega
perché le formali relazioni diplomatiche con la BiH furono stabilite
subito, già nel 1992. Poi venne la guerra, e con essa tutta
l’intensa attività di Papa Giovanni Paolo II in favore della BiH.
Dopo la guerra, la Santa Sede ha continuato a dare il proprio
contributo per la costruzione di una pace giusta, e per lo sviluppo
di queste comunità. In questo contesto si collocano le due Visite di
Giovanni Paolo II e quelle di alti dignitari vaticani. In questa luce
si possono capire anche l’Accordo di Base (2006-2007), l’Accordo
per l’Ordinariato Militare (2010) e l’Intesa
tra l’Università di Sarajevo e la nostra Facoltà di Teologia
Cattolica (2011).
Dopo
il recente Messaggio del
Cardinale Bertone ai Vescovi della regione croata, è evidente che il
Vaticano è parecchio preoccupato per la situazione del popolo croato
in BiH …
Nell’interessamento
generale della Santa Sede per la
BiH, mi pare ovvio che essa segua con particolare attenzione il
popolo croato, che in grande maggioranza è cattolico. Ebbene, sì, i
Superiori della Santa Sede sono preoccupati per il futuro della
presenza cattolica in BiH. La situazione del popolo croato mi pare
molto delicata, a motivo della configurazione istituzionale del Paese
venuta dopo la guerra, e per il fatto che il popolo croato è il meno
numeroso tra i popoli costituitivi. Inoltre, i dati statistici
raccolti ogni anno dalle Curie diocesane documentano un fenomeno
allarmante: c’è un costante calo demografico; e anzi in parecchie
parrocchie sono rimasti solo pochi anziani. Qui non è solo questione
della perdita di vite umane avvenuta durante la guerra; o del mancato
ritorno dei profughi. C’è anche un inarrestabile esodo migratorio,
soprattutto di giovani che non trovano lavoro e cercano altrove
possibilità di impiego. E c’è pure un documentato calo del tasso
di natalità: nel senso che il numero annuale dei morti diventa
sempre maggiore rispetto a quello dei nati.
Sicché,
se si continua di questo passo, in alcune aree si rischia di veder
scomparire del tutto la presenza croata tra qualche anno. Questo è
il motivo che ha indotto il Cardinale Bertone a scrivere – a nome
del Santo Padre – il recente Messaggio
ai
Vescovi della regione croata
circa il futuro della fede cattolica in BiH.
Che
cosa si può fare
per rimediare a questo calo demografico?
Nel
suo Messaggio,
il Cardinale Bertone ha indicato parecchi punti di riflessione e di
intervento. Anzitutto bisognerebbe combattere lo scoraggiamento
(che serpeggia sempre di più e spinge a cercare altrove più facili
soluzioni), e la rassegnazione (che rende alcuni - tra coloro che
restano - pressoché inoperosi, aspettando che altri risolvano i
problemi). Al tempo stesso, si dovrebbe incoraggiare il personale
coinvolgimento di tutti nella questione della sopravvivenza, e in
particolare nella rivendicazione di un’uguaglianza costituzionale
effettiva del popolo croato rispetto agli altri due popoli
costitutivi.
Poi,
sembra necessario concentrarsi sulle condizioni di vita di chi è
rimasto, e in particolare dei giovani, con la speranza di frenare
l’esodo migratorio, che non si riesce ad arrestare. Ciò riguarda
la casa, le condizioni di sicurezza, infrastrutture adeguate per la
vita quotidiana. Ma riguarda soprattutto la creazione di posti di
lavoro, per consentire ai giovani di restare in BiH, com’ è nelle
loro aspirazioni.
Inoltre,
è
opportuno continuare a lavorare, a tutti i livelli, per ottenere che
si creino finalmente condizioni favorevoli per il tanto desiderato
ritorno dei profughi.
E
circa la questione del tasso di natalità?
In
seno
alla Conferenza Episcopale più volte abbiamo convenuto che dovrebbe
essere intensificata la presentazione della dottrina della Chiesa
sulla famiglia e sul matrimonio (perché si diffonde sempre di più
la tendenza tra i giovani a non sposarsi); e quella sulla vita e
sulla natalità (perché ormai è di moda avere uno o al massimo due
figli). In particolare, sembra urgente richiamare ad un senso minimo
di fiducia in Dio, che ci vuole Suoi collaboratori nell’opera della
creazione, attraverso la trasmissione della vita.
Molti
sono convinti che la causa principale di questa situazione difficile
del popolo croato sia da cercare nell’Accordo di Dayton…
Certamente
l’accordo di Dayton è tra le cause principali, perché - con la
configurazione della BiH in due Entità - di fatto ha causato una
divisione del Paese su base etnica, privilegiando i serbi nella
Republika
Srpska,
e i bosgnacchi nella Federazione.
Purtroppo, la situazione è diventata ancora più difficile nel mese
di marzo dello scorso anno, con la formazione del Governo della
Federazione
senza la partecipazione dei legittimi rappresentanti del popolo
croato.
Tuttavia,
sulla
valutazione di Dayton sarei più sfumato rispetto alle opinioni che
spesso vengono espresse da illustri personalità croate. E cioè,
personalmente ritengo che all’Accordo di Dayton bisogna riconoscere
almeno il merito di aver fermato la guerra. Era un punto di inizio.
A mio modo di vedere, il problema è altrove, e sta nel fatto che –
per quanto sia stato fatto parecchio durante questi anni, in termini
di ricostruzione materiale e morale – non si è trovato il
necessario consenso per continuare lungo la strada aperta a Dayton. E
così, nell’esperienza di ogni giorno purtroppo dobbiamo costatare
quanto resti ancora da fare, per portare a compimento l’opera
iniziata a Dayton. In altre parole, mi pare che con l’Accordo di
Dayton si riuscì a fermare la guerra; ma poi non si è pensato
abbastanza a come costruire la pace. O meglio, a come costruire una
pace giusta: una pace che garantisca ai cittadini ed ai popoli
costitutivi di vivere in armonia sociale, e di avere un ruolo nel
Paese al meglio delle loro possibilità.
Questo
potrebbe avvenire
attraverso le riforme costituzionali …
Questa
dovrebbe essere una priorità per il Governo da poco formato. Mi
auguro che si riesca a trovare soluzioni che assicurino i giusti
equilibri ed i meccanismi necessari per garantire eguali diritti e
doveri per tutti i cittadini e per i popoli costitutivi.
Tuttavia,
vorrei aggiungere una cosa
con molta franchezza: le riforme costituzionali oggi mi sembrano al
limite dell’utopia, se prima non si riesce a mettere da parte il
passato, e a guardare di più al futuro di questi popoli e di questi
cittadini. Mi rendo conto che questo non è facile, perché gli
eventi del recente passato - quelli della guerra - sono ancora vivi
nella memoria dei singoli e delle comunità. Questa è la grande
sfida. E mi sforzo di ripetere, a tutti senza differenze, che bisogna
anzitutto “purificare la memoria”. Bisognerebbe avere il coraggio
e la determinazione di chiudere con il passato della guerra, e di
mettere da parte i pregiudizi e i sospetti, che ancora persistono
nelle relazioni tra i singoli e tra i popoli costitutivi.
La
Chiesa cattolica in BiH ha affrontato molte sfide durante e dopo la
guerra.
Purtroppo ci sono state tante debolezze umane, per le quali sono
arrivate anche divisioni tra i Sacerdoti, che si sono poi trasmesse
ai fedeli. Non pensa Lei che queste tensioni dovevano essere risolte
all’interno delle mura della Chiesa?
A
scanso
di equivoci, mi lasci dire anzitutto che apprezzo molto lo zelo, la
preparazione e il dinamismo pastorale dei nostri Sacerdoti e dei
nostri Religiosi. Tuttavia, sin dal mio arrivo in BiH ho dovuto
costatare come in un recente passato qualche cosa non ha funzionato
bene nelle loro relazioni. Perciò, non mi ha meravigliato che tra le
linee prioritarie tracciate dalla Santa Sede per la Chiesa in BiH (di
cui ho potuto parlare personalmente con il Santo Padre), c’era
anche questa: nelle
presenti circostanze si vede la necessità di una maggiore intesa e
di una migliore collaborazione tra strutture e personale diocesani, e
strutture e personale religiosi, specialmente in alcune aree.
In altre parole, si vede l’urgenza di chiarire le difficoltà che
ancora sussistono, e rafforzare il desiderio di lavorare insieme
per l’unica Chiesa di Cristo, in questa Chiesa concreta.
In
questi anni ho cercato di adoperarmi lungo due
direttrici. In primo luogo, ho cercato di richiamare a più riprese
che la storia della Chiesa in BiH ha una nota specifica che tutti
devono serenamente riconoscere. Qui in vari secoli e in tempi
difficili la Chiesa ha potuto continuare la sua presenza e la sua
missione soprattutto grazie ai Francescani, che nel periodo ottomano
seppero trovare la maniera di convivere con le autorità del tempo.
La loro storia è ricca di amore per la Chiesa e per queste terre,
fino al supremo sacrificio di sé. Direi che è grazie soprattutto ai
Francescani che la fiaccola della fede cattolica è rimasta viva in
BiH. Ad essi bisogna essere molto grati per il gran bene che hanno
fatto e continuano a fare.
Quale
è l’altra direttrice ?
L’altra
direttrice è stata di
trasmettere fedelmente – ai Sacerdoti diocesani e ai Religiosi –
il desiderio dei Superiori della Santa Sede, e anzi del Santo Padre
in persona, che si chiariscano i motivi di tensione, e si dia insieme
il
proprio contributo per la crescita di questa Chiesa, nonostante le
incomprensioni che pur ci sono state, e le difficoltà che ancora
sussistono, per lo più ereditate del passato.
Personalmente
sono convinto che nella Chiesa in BiH ci sono due
grandi motori,
che devono lavorare insieme:
quello dei Sacerdoti secolari e delle Istituzioni diocesane da una
parte, e quello dei Religiosi e delle Religiose dall’altra.
Guardando al futuro, per quello che ho potuto sperimentare in questi
anni, credo che non manca la buona volontà di risolvere i problemi.
Perciò sono fiducioso che anche questo aspetto ecclesiale meno
positivo sarà risolto prima o poi, con l’aiuto di Dio, e con
l’impegno di fedeltà alla Chiesa di tutte le persone interessate.
Non
posso non notare che in soli
due anni sono stati nominati quattro nuovi Vescovi dalla BiH. Con ciò
il Vaticano ha voluto mandare un messaggio, o si è trattato solo di
necessità pastorali?
Le
nomine vescovili avvengono sopratutto in considerazione di necessità
pastorali. Ma talvolta intervengono anche altre considerazioni, nel
contesto delle sfide concrete che le comunità cattoliche, o i Paesi
in cui esse sono inserite, si trovano ad affrontare. Sotto questo
aspetto le nomine vescovili di questi due ultimi anni si possono
leggere da due altre prospettive. La prima è quella
dell’incoraggiamento e del sostegno della Santa Sede per la Chiesa
in BiH, nel momento delicato che sta attraversando, come ho
menzionato pocanzi. Inoltre – specialmente per la nomina del primo
Vescovo Ordinario Militare – si può aggiungere una prospettiva
internazionalistica: quella del riconoscimento della BiH come
“categoria permanente”, e non “provvisoria” come vorrebbero
alcuni.
All’inizio
della conversazione, Le ho chiesto di indicare l’evento più
significativo di questi anni nelle relazioni tra la Santa Sede e la
Chiesa in BiH. Certamente uno di questi è l’organizzazione della
Commissione Internazionale su Medjugorje. So che il lavoro della
Commissione è confidenziale; ma si può dire che, con l’istituzione
della Commissione, Medjugorje è diventata un “distretto
ecclesiastico”?
Come
ho già detto, concordo con Lei che l’istituzione della Commissione
Internazionale della Santa Sede su Medjugorje è tra gli eventi più
significativi degli anni del mio servizio in BiH. Nei miei incontri
con il Santo Padre, ho avuto modo di costatare personalmente come
Egli conosce bene il fenomeno di Medjugorje, anche perché, prima di
diventare Papa, è stato per molti anni Prefetto della Congregazione
per la Dottrina della Fede, incaricata di seguire la questione; e
come Egli rimaneva perplesso dinanzi ai giudizi contrastanti che
aveva raccolto su questo fenomeno. Proprio per questo motivo Egli ha
voluto formare la Commissione, chiamando a farne parte personalità
altamente qualificate, da varie parti del mondo.
Tuttavia,
mi pare opportuno chiarire
una cosa: questa è una Commissione di studio
– o di inchiesta,
come si dice nel linguaggio tecnico della Congregazione per la
Dottrina della Fede – senza intaccare la giurisdizione del Vescovo
di Mostar sulla parrocchia di Medjugorje.
Nel
mese di
novembre scorso, ho avuto un altro lungo incontro di lavoro con il
Cardinale Ruini, Presidente della Commissione. Ho ammirato la
chiarezza dell’agenda e la serietà con cui la Commissione sta
svolgendo il suo compito. Sono certo che quando i lavori saranno
conclusi, ne verrà un gran bene per tutti.
A
scorrere
il Suo curriculum,
la prima impressione è che Lei ha potuto maturare una vasta
esperienza in varie parti del mondo, prima di arrivare in BiH
(Thailandia, Laos, Malesia, Singapore, Brasile, Grecia, Italia,
Polonia, Pakistan ed Afghanistan). Ci piacerebbe sapere se quelle
esperienze sono state di qualche utilità nel Suo servizio in Bosnia
ed Erzegovina.
Quando
arrivai
a Sarajevo sei anni fa, nei primi incontri protocollari con le più
alte autorità dello Stato, parecchi mi fecero notare che il servizio
che avevo prestato in precedenza sembrava quasi una ben progettata
programmazione per la mia attuale missione. Evidentemente si trattava
solo di un modo di dire. Tuttavia è vero che, grazie a Dio e alla
fiducia dei Superiori, sono stato in Paesi con popolazione a grande
maggioranza islamica (Pakistan, Afghanistan, Malesia), in altri
tradizionalmente di fede ortodossa (Grecia), in altri a grande
maggioranza cattolica (Brasile, Italia, Polonia). Oggi, a distanza di
sei anni, sono convinto che ciò è stato molto utile per capire la
complessità della BiH, nelle sue componenti etniche e religiose.
Inoltre,
direi che gli anni vissuti
presso le Nunziature Apostoliche in Italia e in Polonia mi hanno dato
una buona esperienza nel campo delle relazioni concordatarie. A
quelle esperienze ho fatto ricorso spesso durante i negoziati che
abbiamo condotto con le autorità di BiH e di Montenegro, per la
stipulazione dei nostri Accordi.
Eccellenza,
il
Suo curriculum ecclesiale e diplomatico è davvero interessante.
Passando ad un altro aspetto della Sua personalità, ricorda Lei il
momento in cui ha deciso di diventare Sacerdote?
La
decisione di diventare Sacerdote
l’ho maturata un po’ per volta, in un lungo processo di
discernimento vocazionale, che è durato vari anni. Ma ricordo bene
il momento in cui ho cominciato a parlarne per la prima volta. Avevo
solo nove anni. Un giorno, come accade spesso ai ragazzi di
quell’età, con mio fratello giocavamo a dirci cosa avremmo fatto
da grandi. Lui diceva una professione, io ne dicevo un’altra. Ad un
certo punto, sentii dentro di me una forte inclinazione per la vita
sacerdotale, che mi fece mettere da parte tutto il resto. E di
slancio corsi a dirlo a mia madre, di venerata memoria, la quale a
sua volta trasmise questo mio desiderio a papà (anch’egli volato
al cielo due anni fa).
I
miei genitori erano persone
semplici, di grande fede. Rivisitando la memoria di quel giorno,
posso dire con certezza che essi furono molto contenti di quel
desiderio da me espresso. Tuttavia, com’è naturale, vollero
aiutarmi nei primi passi del discernimento vocazionale … anche
assumendosi il ruolo di avvocato
del diavolo.
E così, anche su consiglio di bravi e santi Sacerdoti, decisero che
non frequentassi più la scuola tenuta da Religiose, ove ero andato
fin’allora, e mi iscrissero ad una scuola statale. Successivamente,
su mia insistenza, passai al Seminario Minore della nostra diocesi
(Aversa), e poi al Seminario di Posillipo-Napoli, annesso alla
Facoltà di Teologia. Fui ordinato sacerdote il 24 marzo 1974: fu un
gran giorno, per il quale non cesso di rendere grazie a Dio.
E
poi,
dove ha svolto il Suo ministero?
Dopo
pochi
mesi di ministero sacerdotale in parrocchia, il Vescovo mi disse che
ero stato segnalato alla Santa Sede per il servizio diplomatico; e mi
chiese se accettavo di andare alla Pontificia Accademia Ecclesiastica
(in Roma), che è l’istituzione che prepara i futuri diplomatici
della Santa Sede. Era una strada a cui non avevo mai pensato. Dopo
qualche giorno di riflessione, risposi che accettavo, in spirito di
obbedienza e di servizio ecclesiale; ma aggiunsi che avrebbe dovuto
aver comprensione per me, qualora avessi costatato la mia
inadeguatezza per questo servizio.
Ricordo
pure che alcuni Professori della
Facoltà di Teologia (tenuta dei Padri Gesuiti) e della Facoltà
statale di Filosofia, cercarono di distogliermi dalla “via romana”,
proponendomi un ruolo di Docente nelle rispettive Facoltà. Pur tra
mille incertezze, optai per l’obbedienza al Vescovo, e alla Santa
Sede che mi aveva chiamato. Il resto lo sapete già, dal mio
curriculum.
Quali
sono
stati i momenti più belli del Suo ministero sacerdotale?
Non
mi è facile rispondere
a questa domanda, perché nei Paesi ove sono stato, ho avuto modo
anche di fare tante belle esperienze di ministero sacerdotale. A
grandi linee, posso dire che conservo un gran ricordo del servizio di
pastorale giovanile a Bangkok e a Brasilia; del gruppo ecumenico che
animavo ad Atene, insieme ad un Protopresbitero ortodosso (con il
quale sono ancora in corrispondenza); delle attività del Centro
culturale dei Padri Barnabiti a Varsavia; dei corsi di preparazione
al matrimonio, che tenevo a Roma; delle Associazioni e dei Movimenti
laicali che ho seguito nella mia città natale; del ruolo di
quasi-parrocchia svolto dalla Cappella della Nunziatura Apostolica in
Pakistan, nelle drammatiche circostanze dei frequenti attentati
contro le comunità cristiane, dopo l’undici settembre 2001.
Quando
lei arriva
nella Sua città natale, a Frattamaggiore, per i Suoi concittadini
Lei è un semplice cittadino da “tu” o un ecclesiastico eminente,
con cui loro si rapportano con il “Lei”?
Credo
che per la maggioranza – quelli che mi conoscono meglio o da più
tempo – resto soprattutto un amico, che si rivede volentieri. Ciò
lo notò anche il Cardinale Puljić quando venne a Fratta per la
celebrazione del decimo anniversario della mia Ordinazione
Episcopale. Ricordo che Sua Eminenza fu impressionato dalla
cordialità e dalla vivacità dell’amicizia che mi veniva
manifestata, con il calore relazionale tipico di noi napoletani.
Ovviamente
non mancano quelli che si rapportano a me con un certo rispetto
riverenziale. Per quel che mi riguarda, preferisco di gran lunga
coloro che mi considerano un “amico”, perché mi consentono di
vivere più intensamente i vincoli con la terra natale, alla quale
sono molto legato.
Può
spiegarci i simboli del Suo stemma episcopale?
E’
molto semplice. Anzitutto un Vescovo porta nel suo stemma un cappello
verde, che è segno della dignità vescovile. Poi ci sono a destra
e a sinistra dei fiocchi, che per un Arcivescovo sono disposti in
quattro file (per un Cardinale in cinque, e per un Vescovo in tre).
Come
motto, ho scelto: "VENI SANCTE SPIRITUS" (Vieni Spirito
Santo) per due motivi. Il primo: perché la mia elezione
all’episcopato avvenne nel 1998, e cioè durante l’anno che Papa
Giovanni Paolo II aveva consacrato allo Spirito Santo, nel cammino di
preparazione al terzo millennio. Il secondo motivo è legato alla
consapevolezza che l’episcopato è un dono di Dio, al quale gli
eletti devono dare una adesione incondizionata, nonostante i loro
limiti. Essendo io ben cosciente dei miei limiti, ritengo
fondamentale pregare ed invitare gli altri alla preghiera: una
preghiera rivolta soprattutto allo Spirito Santo, che è datore di
vita e anima interna della Chiesa.
Lo
scudo ha, come tema dominante, la parte alta ove c’è lo Spirito
Santo simbolizzato da una colomba, che richiama il motto. Poi c’è
un campo composto da una fascia rossa con una palma: il rosso e la
palma sono segni di martirio. Questo perché volevo ricordare la mia
origine: vengo da una città e da una diocesi che hanno per patroni
un martire: S. Sossio per Frattamaggiore e S. Paolo per Aversa.
Nel
campo in basso a sinistra di chi guarda c’è un rimando alla
parrocchia di appartenenza, che è quella di Maria SS.ma del Carmine
in S. Ciro. S. Ciro era un medico e, come riferimento alla sua
professione, ho preferito un calice con un serpente, anziché il
simbolo di Esculapio, che poteva risultare troppo "pagano".
Sull’ultimo
campo a destra, c’è una "M" che sta per MARIA, perché
quando Giovanni Paolo II mi chiamò all’episcopato ero in servizio
alla Nunziatura Apostolica in Polonia, che - come sapete - è un
Paese consacrato alla Madonna di Czhęstochowa. La "M" dice
pure un riferimento a Giovanni Paolo II, che mi ha elevato
all’episcopato. E ciò perché anche il Papa portava una "M"
nel suo stemma.
Nessun commento:
Posta un commento