Anche
sul luogo, sui significati e sui caratteri storici del Monastero e della Chiesa
dei Francescani (OFM) di Dubrava, situati nell’hinterland di Zagabria, si possono
leggere riferimenti su alcuni post pubblicati sul blog (vedi qui). S. E. Mons. Alessandro D’Errico ha un rapporto
familiare e costante con i Francescani che operano nell’area di Zagabria, in
quanto rappresentano istanze religiose e sociali che vanno oltre gli aspetti
localistici e si estendono alle problematiche più ampie della missione e della
religiosità vissute in rapporto anche ai cattolici di Bosnia-Erzegovina e di
altre aree dei Balcani. La festa del santo frate
cappuccino croato, San Leopoldo Mandic, al quale il popolo croato rivolge una grande
devozione, è stata celebrata nella parrocchia dedicata allo stesso Santo ed officiata dai Frati Cappuccini che arricchiscono ulteriormente la presenza del francescanesimo a Dubrava. La festa è stata così l’occasione per un
nuovo incontro del Nunzio Apostolico con la realtà francescana e per vivere con la popolazione un proficuo momento di catechesi e di dialogo
ecclesiale. Dalle pagine e dalle
gallerie fotografiche pubblicate sulle agenzie e sui social network emergono i tratti di una comunicazione diretta tra la gente che sono caratteristici del
dialogo pastorale del vescovo D’Errico. Il giorno 12 Maggio 2014 egli ha
concelebrato con il Provinciale dei frati cappuccini, frate Ante Logare, con il Guardiano di Dubrava,
frate Ivice Vrbića, e con altri sacerdoti e con il popolo numeroso.
L’omelia
di S. E. Mons. Alessandro D’Errico è stata incentrata sul racconto della vita
del Santo e sul significato pastorale del suo esempio di contemplativo e di
apostolo del perdono e della riconciliazione.
Le
agenzie e i portali cattolici in rete, anche quelli di Bosnia-Erzegovina, hanno ampiamente commentato la celebrazione
del Nunzio ed hanno riportato il testo in croato della sua omelia.
Di
seguito leggiamo l’intero testo in italiano dell’omelia del vescovo D’Errico.
Omelia del Nunzio Apostolico
(Zagabria, 12
maggio 2014)
In questo giorno nel quale celebriamo la
festa di san Leopoldo Mandić, il Santo della riconciliazione, la Chiesa ci
parla dell’amore di Dio, e offre alla nostra meditazione la figura del Buon
Pastore che dà la vita per le pecore, e cerca anche quelle che non sono di
questo ovile, affinché diventino un solo gregge sotto un solo pastore. La
Parola di Dio propone così due precisi aspetti della figura di San Leopoldo: la
sua ansia apostolica di riconciliazione e di espiazione, e la sua aspirazione
ecumenica e missionaria.
Quando Paolo VI il 2 maggio 1976 lo
proclamò beato, lo presentò con queste ispirate parole: “Chi è, chi è colui che oggi qui ci raccoglie per celebrare nel suo nome
beato una irradiazione del Vangelo di Cristo? E’ un povero, piccolo cappuccino.
Sembra sofferente e vacillante, ma così stranamente sicuro che ci si sente da
lui attratti, incantati… Questo incanto viene in primo luogo dal gesto
dell’assoluzione da lui tracciato per 52 anni
nel silenzio, nella riservatezza, nell’umiltà di una
celletta-confessionale”. Questo aspetto fu ben sottolineato anche da San
Giovanni Paolo II, quando il 15 ottobre 1983 lo iscrisse nell’albo dei Santi. “In questo suo scomparire - disse il Papa
- per far posto al vero Pastore delle anime,
sta la sua vera grandezza”. “E’ lui
che perdona, è Lui che assolve!” - diceva il Santo additando il Crocifisso.
“Fu un confessore di continua preghiera;
un confessore che viveva abitualmente assorto in Dio, in un’atmosfera
soprannaturale”.
Giovanni Paolo II rilevò anche il secondo
aspetto della santità di P. Leopoldo: lo spirito ecumenico. “Fu un sacerdote - disse - che aveva uno spirito ecumenico così grande
da offrirsi vittima al Signore con donazione quotidiana, affinché si ricostituisse
la piena unità fra la Chiesa latina e quelle orientali ancora separate, e si ricomponesse
un solo gregge sotto un solo Pastore. Egli visse la sua vocazione ecumenica in
un modo del tutto nascosto”. Piangendo, confidava: «Sarò missionario qui, nell’obbedienza e nell’esercizio del mio ministero…
Ogni anima che chiede il mio ministero sarà il mio Oriente».
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Questo nascondimento, questa vita
semplice e nascosta non è facile raccontarla, come non è facile descrivere il
cumulo immenso di misericordia di Dio che si è riversato nei pochi metri
quadrati della sua celletta-confessionale, e l’ardore della sua offerta sacrificale
per l’unità della Chiesa.
Nacque il 12 maggio 1866 a Herceg Novi,
in Dalmazia, all’ingresso delle Bocche di Cattaro, sull’Adriatico. Era l’ultimo
di quindici figli; fu battezzato il 13 giugno col nome di Bogdan. Il padre,
Pietro Mandić, pescatore e commerciante, aveva sposato Carlotta Carević.
Ambedue erano ferventi cattolici.
A sedici anni, il 16 novembre 1882,
entrò nel seminario dei Cappuccini di Udine. La vocazione cappuccina di Bogdan
nasceva da una forte ansia apostolica. Nei due anni trascorsi a Udine cercò di
correggere, nel silenzio e con l’autocontrollo, una piccola balbuzie che lo
bloccava nel suo desiderio di comunicare. Aveva un carattere cordiale ed
estroverso. Si rivelò subito un modello in tutto. L’anno di prova lo passò a
Bassano del Grappa (Vicenza), dove - con l’abito cappuccino - assunse il nome
di Fra Leopoldo, il 2 maggio 1884. Poi ci fu il triennio filosofico a Padova,
dal 1885 al 1888. Il 18 giugno 1887 - come egli stesso lasciò scritto - udí per
la prima volta la voce di Dio parlargli del ritorno dei dissidenti orientali
all’unità cattolica. È questo l’orientamento fondamentale di tutta la sua vita,
il ritornello delle sue aspirazioni, la ragione della sua missione.
Ricevette l’ordinazione sacerdotale il
20 settembre 1890, nella chiesa de La Salute. Subito chiese ai Superiori di
essere inviato missionario in Oriente. La risposta fu negativa: era balbuziente
e i Superiori non lo consideravano adatto. Anche successive e reiterate
richieste vennero respinte. Allora si ripiegò, nel silenzio dell’obbedienza, al
ministero della preghiera per l’unità, nella penombra del confessionale. E così
un campo missionario più esteso delle terre d’Oriente si apriva misteriosamente
davanti al piccolo Frate. La Messa quotidiana, vissuta come impegno ecumenico, inondava
di luce la sua vocazione, e questa si irradiava penetrante e sapiente nel
confessionale. In sette anni di permanenza a Venezia, divenne un punto di
riferimento, un vero maestro di spirito, dotato di particolari carismi spirituali.
Nel 1905, per un anno venne mandato al
convento di Capodistria, come Vicario. Richiamato di nuovo in Italia, trascorse
tre anni a Thiene (Vicenza), presso il santuario della Madonna dell’Olmo. Trasferito
a Padova nel 1909, i Superiori gli affidarono la direzione degli studenti e
l’insegnamento della patrologia. Questo periodo, denso di studi e di impegno
didattico a Padova, rappresentò il culmine drammatico della sua vocazione
missionaria ed ecumenica, trasformata in offerta eroica di sé come olocausto e
vittima. Nel mese di gennaio 1911 scriveva al suo Direttore Spirituale, che gli
rispondeva: «Sia certo che questo atteggiamento
di orante e di vittima dinanzi al Padre di tutti gioverà molto ai popoli
dissidenti». Ormai padre Leopoldo aveva scelto uno stato permanente di
vittima, nell’obbedienza radicale che assume i toni della dura obbedienza
ignaziana e della mistica dell’annientamento, sofferto con tutta la ricchezza
della sua forte umanità dalmata. Aveva ormai quarantasette anni. Fu duro per
lui sostituire ai suoi sogni di apostolato missionario i patimenti accettati in
conformità a Cristo e a san Francesco. Egli, scrive un biografo, «offriva quanto poteva offrire di sé -
fisicamente, esistenzialmente - agli scolari, ai penitenti, agli amici. La vita
ne veniva compromessa per intero: compromessa perché gettata».
Dopo il periodo della direzione degli
studenti, dal 1914 la sua vita fu tutta dedicata al martirio della confessione.
Ma il suo cuore rimase sempre in Oriente. Dopo un breve periodo a Zara, fu
richiamato a Padova, dove confessava da dieci a dodici ore al giorno, incurante
del freddo, del caldo, della stanchezza, delle malattie. «Stia tranquillo» – diceva ai suoi penitenti – «metta tutto sulle mie spalle, ci penso io», e si addossava
sacrifici, preghiere, veglie notturne, digiuni, discipline a sangue. Egli
andava incontro con gioia al penitente, anzi lo ringraziava e avrebbe voluto abbracciarlo.
Una volta ascoltò in ginocchio un penitente, che per sbaglio, entrando nella sua
celletta, si era seduto lui sulla poltroncina. Venne tacciato di lassista, di
“manica larga”, e soffrì molte avversioni. Ma egli, indicando il Crocifisso, rispondeva
con meravigliosa esperienza della misericordia di Dio: «Se il Crocifisso mi avesse a rimproverare della manica larga,
risponderei: Questo triste esempio, paron Benedetto, me l’avete dato voi;
ancora io non sono giunto alla follia di morire per le anime!». In questa attività
di misericordia consumò il suo sacrificio fino alla morte, che lo colse il 30
luglio 1942. Aveva 76 anni.
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Questa vita semplice, piccolo seme che
muore, ha prodotto un meraviglioso albero, pieno di frutti fecondi fino ad oggi.
L’attualità della sua vita di santità nella Chiesa si può ravvisare in alcuni elementi
molto stimolanti.
Nella sua testimonianza eroica di vita
cristiana, c’è l’amore per il raccoglimento, per il silenzio, per la
contemplazione che porta a riappropriarsi della propria identità, come condizione
essenziale per l’incontro con Dio e di conseguenza per la riscoperta del mondo
e dei fratelli. C’è la passione della Croce, del sacrificio, che costituisce il
miglior rimedio alla ricerca edonistica, di cui è malato il mondo d’oggi. C’è
una volontà ferma di corredenzione, che si contrappone al prepotente impulso
dell’egoismo sociale. C’è un vivo desiderio di amore e di servizio, che
contrasta con gli schemi diffusi che spesso purtroppo dobbiamo costatare nel mondo
di oggi. C’è soprattutto un ardente spirito ecumenico, che è un vero adombramento
dell’autentico spirito di Gesù, perché il cristiano non può non essere “ecumenico”
in qualsiasi momento della sua vita. C’è l’urgenza della nuova evangelizzazione,
della missione che appartiene a tutti i cristiani, perché essere discepoli di
Cristo non può essere un fatto privato; al contrario, la gioia della fede deve
essere condivisa con tutti, specialmente con i poveri e i lontani, ben sapendo
che la fede si rafforza donandola.
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Perciò, la preghiera che eleviamo questa
sera nel ricordo di S. Leopoldo, per noi qui riuniti e per tutta la Chiesa di
Dio in Croazia, è che questo piccolo Cappuccino, intrepido e inarrestabile
nella povertà del suo saio francescano, possa aiutarci a vedere ogni giorno di
più nella “santa Chiesa”, non un comodo lido dove adagiarsi e star fermi, ma la
“nave di Pietro” su cui ognuno di noi deve prendere il suo posto attivo, con
gioia e con servizio di responsabilità.
Possa S. Leopoldo Mandić, che ripropone
cosi dolcemente e fortemente la figura di Cristo Buon Pastore, ottenerci lo
spirito di conversione, di interiorità, di zelo missionario e un cuore pieno di
misericordia! Amen.
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